Perché la guerra sta mettendo a dura prova il settore zootecnico
Le ripercussioni dell’attuale conflitto in Ucraina stanno colpendo duramente non solo il settore energetico, ma anche quello alimentare. Ucraina e Russia sono leader mondiali nella produzione di cereali, sia per il consumo umano che per la produzione di mangimi destinati agli animali per la produzione di carne, latticini e uova.
Importazioni di mais dall’Ucraina
Con 36 milioni di tonnellate prodotte ogni anno, l’Ucraina è il quinto produttore al mondo di mais per l’alimentazione animale e il quarto Paese per esportazioni a livello globale. Negli ultimi due anni, l’Ucraina è stato anche il principale fornitore di mais all’UE — oltre la metà della quota totale.
Come spiega un comunicato di Reuters ripreso da numerose testate, «gli acquirenti di mais per mangimi si sono affrettati a prenotare forniture dell’Unione europea per sostituire le esportazioni ucraine bloccate dall’invasione russa». Secondo una fonte dell’agenzia stampa, «Per ogni giorno in cui i porti ucraini sono bloccati significa che dai mercati mondiali mancano circa 100.000 tonnellate di mais».

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In Italia, dove la produzione interna di mais non garantisce più l’autosufficienza, le importazioni sono molto rilevanti e la maggior parte, ancora una volta, sono destinate alla zootecnia. Come spiegavamo in questo articolo, il calo di produzione è dovuto a una «progressiva perdita di competitività della materia prima» nel nostro Paese, situazione aggravata dagli effetti del cambiamento climatico che stanno rendendo la sua coltivazione sempre più difficile. Il mais infatti è un cereale che richiede ingenti quantità d’acqua — 100 mila litri per ogni tonnellata di mais — acqua che scarseggia ogni anno di più.
Lo scioglimento dei ghiacciai dell’arco alpino e il conseguente prosciugamento dei fiumi, primo tra tutti il Po, fanno sì che le regioni della Pianura Padana, dove la coltivazione del mais ha radici antiche, non abbiano acqua a sufficienza da destinare alle colture, inclusa quella del mais. A inizio febbraio alcuni agricoltori hanno denunciato il fatto che il fiume più lungo d’Italia sia secco come a Ferragosto.
Secondo Assalzoo, nel giro di un mese le materie prime agricole per la produzione mangimistica non saranno più disponibili e questo potrebbe comportare «l’abbattimento degli animali presenti nelle stalle e il crollo delle produzioni alimentari di origine animale, come carni bovine, suine e avicole, latte, burro e formaggi, uova e pesce».
Fertilizzante russo per la soia brasiliana
La situazione attuale sta mettendo a dura prova anche la produzione brasiliana di soia, centrale nella filiera zootecnica globale, perché ampiamente utilizzata come mangime in tutti gli allevamenti del mondo — l’80% della soia brasiliana è destinata agli allevamenti intensivi. Per la produzione di questo legume, di cui il Brasile è il primo esportatore al mondo, dipende fortemente dalle forniture russe di nitrato di ammonio, un fertilizzante impiegato nelle monocolture.
La produzione di soia, come ampiamente documentato da numerose organizzazioni per i diritti umani e dell’ambiente, ha enormi ricadute ambientali dovute alla distruzione della foresta Amazzonica, da un lato, per fare largo alle monocolture di questo legume, dall’altro, per estendere i pascoli. Già il 24 febbraio Reuters diffondeva la notizia che «le esportazioni agricole brasiliane potrebbero perdere il loro vantaggio competitivo a causa della scarsità di fertilizzanti e dell’impennata dei prezzi» dovuti al conflitto.

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Che cosa sta succedendo in Italia?
Secondo i dati di Coldiretti Puglia, il prezzo del mais è aumentato del 17% in una settimana dall’inizio della guerra e quello della soia destinata agli allevamenti del 6%. A destare ulteriore preoccupazione è la chiusura dei porti sul Mar Nero, che impediscono alle navi di partire. Gli allevamenti italiani stanno già denunciando la penuria di materie prime per mangimi.
Secondo Giulio Gavino Usai, responsabile economico di Assalzoo, in Italia bisognerebbe «seminare almeno 70-80.000 ettari in più di mais [solo] per recuperare il prevedibile calo di importazione dall’Ucraina, vista la criticità attuale». Se invece volessimo soddisfare la domanda di mais della zootenia nazionale dovremmo coltivare 300 mila ettari in più, vale a dire una superficie ampia quanto l’intera Valle d’Aosta.
Intanto anche l’Ungheria ha deciso di sospendere, fino al 22 maggio, le esportazioni nazionali di cereali, soia e girasole, decisione che potrebbe portare al «rischio concreto di non riuscire a garantire l’alimentazione del bestiame» secondo il presidente della Coldiretti Ettore Prandini.
Un sistema da cambiare
Secondo il collettivo Fango, che nell’ultima newsletter si è occupato di guerra e sicurezza alimentare, «questa situazione era già aggravata dagli effetti della pandemia, della crisi energetica e dai cambiamenti climatici che, a gennaio scorso, hanno portato a registrare il più alto indice dei prezzi alimentari (monitorato da Fao) che sui cereali ha segnato un aumento del 12,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente».
Ancora una volta le dinamiche geopolitiche mostrano le storture di un sistema alimentare profondamente fragile che mette i profitti davanti alla necessità di nutrire la popolazione. Continuare ad allevare miliardi di animali ogni anno significa dover destinare a loro oltre un miliardo di tonnellate di mangimi (mais e soia in testa) che almeno in parte potrebbero essere altrimenti impiegati per l’alimentazione umana. Animali che non nascono “naturalmente”, ma che sono il frutto di inseminazioni artificiali e che sono quindi obbligati a nascere solo per essere macellati.