Gli effetti sulla salute mentale di chi lavora nell’industria della carne


Maria Mancuso
Web content editor

Quali sono gli effetti sulla salute mentale di chi è obbligato a lavorare in macelli e allevamenti dove gli animali sono trattati come merci e non come esseri capaci di provare dolore e paura? Che rapporto c’è tra la violenza che infliggiamo agli animali e quella diffusa nella nostra società?

Sono queste le domande al centro dell’intervista con la dottoressa Annamaria Manzoni, psicoterapeuta e autrice di vari libri tra cui Sulla cattiva strada. Il legame tra la violenza sugli animali e quella sugli umani (Sonda, 2014). 

1. Dottoressa Manzoni, potrebbe parlarci di quali sono le conseguenze psicologiche per chi è sottoposto alla continua violenza e sofferenza degli animali negli allevamenti intensivi o nei grandi macelli? 

Già nell’antichità quello nei macelli veniva considerato un lavoro fonte di insensibilità e crudeltà e quindi foriero di danno sociale, da riservare possibilmente a schiavi o criminali da punire. Oggi la situazione non è poi così diversa: si tratta di  un lavoro spesso affidato a persone che nella quasi totalità dei casi non lo scelgono, come i migranti, ma che lo accettano per necessità, dal momento che è duro, pesante, in genere mal pagato e pericoloso

Da non molto ci si è cominciati ad occupare dei contraccolpi non solo fisici, ma anche psicologici che i lavoratori di queste strutture subiscono. Per inquadrare questo malessere è necessario fare prima riferimento al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD): si tratta  di  un disturbo causato dall’esposizione a uno o più eventi traumatici quali guerre o tragedie di ogni tipo. Le sue manifestazioni possono comprendere sintomi intrusivi, per cui memorie disturbanti dei fatti compaiono in varie forme, compresi sogni e incubi; ci sono alterazioni del pensiero e dell’umore; ansia, irritabilità, disturbi del sonno, dell’attenzione, della memoria; possono instaurarsi comportamenti violenti e distruttivi

Decisamente più faticoso è prendere atto che questi sintomi possono riguardare non solo le vittime, ma anche i perpetratori di atti dalla valenza traumatica. Lo ha fatto la psicologa Rachel M. Macnair che ha individuato lo Stress Traumatico Indotto dalla Perpetrazione (PITS) che riguarda proprio lo stress di chi è stato autore di uccisioni, quali soldati, torturatori, ma anche poliziotti, veterinari… Gli studi si sono estesi anche ad altre categorie di perpetratori, tra i quali appunto i lavoratori dei macelli e hanno rivelato situazioni di ampio disagio: mancano statistiche precise, ma tra di loro sono molti coloro che fanno ricorso all’alcol, che mettono in atto comportamenti di marcato ritiro sociale, che congelano dentro di sé le emozioni, che possono sviluppare comportamenti lesivi o autolesivi, che sviluppano forme di dissociazione tra una parte di sé adattata al lavoro di macellare gli animali e un’altra che prova intenerimento verso di loro. 

Non va dimenticato, a questo proposito, un’importante ricerca di Amy Fitzgerald (2009) secondo cui, nei luoghi dove sorgono grandi macelli, si registra tra la popolazione un incremento della violenza generale: si badi bene, non solo da parte dei lavoratori, a testimonianza della capacità di contagio della violenza. Una particolare attenzione merita proprio, nei mattatoi, l’espressione di ulteriori crudeltà gratuite sugli animali, deriva tutt’altro che rara di chi, se pure a norma di legge, infierisce regolarmente su esseri indifesi e terrorizzati. A volte qualche caso emerge dalla cronaca: allora è tutto un gridare allo scandalo, un parlare delle solite mele marce che getterebbero discredito sulle istituzioni. Enormi sforzi per nascondere la verità, vale a dire che a essere marcio è il contenitore, quello che non si è disposti a mettere in discussione. 

2.  Come quindi la violenza sugli animali si lega con quella contro gli esseri umani? Chi è violento contro gli animali è più portato a essere violento contro le persone? 

La continuità tra violenza sugli umani e sugli animali è apparsa chiara a pensatori che si sono succeduti nel corso dei secoli a partire da un paio di millenni fa.  Il loro pensiero si può sintetizzare nella convinzione che la crudeltà sugli animali spegne la pietà e quindi apre la strada a quella sui nostri simili. 

Oggi questa idea non è più appannaggio di pochi eletti, ma è entrata nel sapere condiviso di  varie discipline e nel patrimonio di conoscenze diffuse, accompagnata da una rivisitazione: essere crudele nei confronti degli animali non è sempre e solo la strada maestra per imparare a farlo sugli esseri umani perché l’una e l’altra manifestazione di crudeltà non sono necessariamente legate da un rapporto di causa-effetto, ma possono essere contestuali, andare di pari passo, coesistere come espressione di una dinamica, indirizzata contro esseri normalmente scelti in base alla loro debolezza: in realtà l’unica differenza è la vittima, umana o nonumana*. 

Non può quindi meravigliare che persone che hanno nelle loro abitudini comportamentali azioni violente, crudeli, aggressive le dirigano sia verso umani che nonumani* capaci di sofferenza. 

3. Ci sono esperienze di lavoratori o lavoratrici impiegati dell’industria della carne con cui ha parlato e di cui vuole raccontarci?

Ho avuto esperienza diretta con una particolare categoria di persone, vale a dire quelle che sono riuscite a farsi assumere in strutture di questo tipo per raccogliere materiale documentario altrimenti non reperibile. Persone estremamente sensibili alla sofferenza degli animali che pur nelle loro diversità hanno evidenziato come tratti comuni un grado enorme di malessere non sufficientemente controllato da meccanismi difensivi, sulla soglia di un disturbo da stress post traumatico.

Risulta a mio avviso invece estremamente illuminante la testimonianza rilasciata a BBC News nel 2020 da una donna che aveva ricoperto per sei anni una funzione direttiva all’interno di un mattatoio inglese dove venivano uccisi 250 bovini ogni giorno e dove i lavoratori erano per la massima parte immigrati dall’Europa orientale. Nell’intervista ne parla come di un lavoro brutale, da cui aveva riportato traumi mentali. Il primo passaggio nelle varie sezioni del mattatoio, racconta, era un’esperienza talmente sconvolgente da provocare lo svenimento di alcuni dei neoassunti, che solo col tempo imparavano a dissociarsi per diventare insensibili alla morte e alla sofferenza: per sopravvivere ci si abitua a non vedere gli animali come esseri interi, ma come parti da vendere e mangiare; e poi si cerca di ridiventare altro, andare a casa ed essere una persona normale. 

un’esperienza talmente sconvolgente da provocare lo svenimento di alcuni dei neoassunti, che solo col tempo imparavano a dissociarsi per diventare insensibili alla morte e alla sofferenza

Il controllo su di sé non è mai totale, perché a volte esperienze più brutali delle altre provocano panico anche tra i più esperti: per esempio l’uccisione di vitellini, così piccoli e fragili da riuscire a malapena a camminare, colpiti e uccisi mentre cercano solo aiuto, o di mucche incinte. Le emozioni nei macelli, ricorda, tendono a essere represse, tenute dentro: nessuno parla di quello che prova per una sconvolgente sensazione di non essere autorizzati a mostrare la propria debolezza; con l’aggravante che lo scarso possesso di una lingua straniera inibisce anche chi lo volesse a confrontarsi con gli altri. Senza contare che molti sono quelli che, per vivere, devono avere un secondo lavoro: il che li rende esausti. Il risultato può essere il ricorso all’alcol o a energizzanti. La donna racconta di aver sofferto di depressione come conseguenza dell’essere circondata da morte, e di avere avuto pensieri suicidari.

© Adobe Stock

Direi che si tratta di una testimonianza da manuale perché non manca nessun elemento di quelli già menzionati: i lavoratori sono immigrati, a cui è delegato il lavoro sporco, sottopagato tanto da renderne necessario contemporaneamente un altro, fino allo sfinimento; non si tratta di persone sadiche, ma dotate di una sensibilità comune, tanto da provare sconvolgimento nei primi approcci con tanta violenza; vengono inconsciamente adottati meccanismi di dissociazione per sopportare l’insopportabile; le emozioni vengono congelate in una  sorta di fear of feelings, vale a dire  paura di mostrare ciò che si sente, per la potenza che viene riconosciuta alla propria capacità di soffrire, ma forse anche per una sorta di sensazione di non diritto che si pensa di avere, visto il lavoro che si fa, che rende colpevoli; isolamento sociale; conseguenze anche sul piano fisico; pensieri intrusivi e incubi; vissuti di colpa; poi vissuti depressivi, pensieri suicidari, che a volte diventano acting out e portano alla morte. Il tutto senza alcuna forma di sostegno sociale, amicale, psicologico.

Immagini documentate nel macello Zema dove a causa degli stordimenti inadeguati molti dei maiali venivano messi sui nastri trasportatori ancora coscienti.
© Animal Equality Italia

4. Perché la sofferenza degli animali ci tocca meno, ci sembra meno importante? Quali meccanismi mettiamo in campo per giustificarla?

Non sempre è vero che la sofferenza degli animali ci sembra meno importante di quella umana: in campo animalista e antispecista non mancano coloro per i quali è forse vero il contrario. Detto questo, è in effetti la stragrande maggioranza delle persone a ritenerla meno importante. Il motivo principale credo che risieda nella scarsa, molto spesso nulla, considerazione che si ha degli animali: e se non contano nulla o quasi, se l’abitudine a reificarli è quasi la norma, tutto quello che li riguarda è altrettanto privo di valore.

Di conseguenza è possibile passare davanti a gabbie dove le galline sono stipate, imprigionate l’una addosso all’altra, e non avere un sussulto di compassione. O guardare una corsa all’ippodromo dove cavalli col morso in bocca e i paraocchi sono frustati ferocemente per correre di più e pensare solamente a chi vincerà la gara. O assistere a una sagra dove i buoi sono frustati per correre trascinando pesi impossibili e urlare di entusiasmo. 

In altri termini, la posizione che gli animali occupano nelle convinzioni di molti (esseri a noi assoggettati in quanto inferiori) sdogana come normali molti dei trattamenti che a loro infliggiamo. Un mondo che vede l’uccisione di circa 170 miliardi di animali ogni anno solo a scopo alimentare è un immenso mattatoio che giustifica qualsiasi trattamento nei loro confronti.

*La dottoressa Manzoni preferisce usare “nonumano” come fosse un termine unico, prendendo spunto dalla “nonviolenza” di Aldo Capitini.