Senza il mais gli allevamenti intensivi non esisterebbero
In questo approfondimento ripreso dalla newsletter Animal Farm News parliamo del cereale più coltivato sul Pianeta: il mais. Perché se i membri delle civiltà mesoamericane si consideravano persone fatte di mais, ora lo siamo tutti.
Quanto la società dei consumi sia dipendente dal mais l’ho imparato da Michael Pollan che nel suo Dilemma dell’onnivoro gli dedica ben 98 pagine: «Dei trentotto ingredienti che compongono un McNugget, almeno tredici, secondo il mio calcolo, derivano dal granoturco: il pollo in sé (alimentato con mangimi a base di mais), l’amido di mais modificato (che serve a legare la carne sbriciolata), i mono, di e trigliceridi (emulsionanti che impediscono ai grassi e all’acqua di separarsi), il destrosio, la lecitina (un altro emulsionante), il brodo di pollo (che restituisce un po’ del sapore strappato via dalla lavorazione), la farina di mais e un altro tipo di amido modificato che formano la crosta, altro amido ancora per fare massa, i grassi vegetali, l’olio di mais parzialmente idrogenato».
Da dove arriva il mais e il ruolo degli USA
La nostra relazione con il mais è iniziata 9 mila anni fa in Messico. A quei tempi piccoli gruppi di raccoglitori-cacciatori si spostava nella valle del fiume Balsas seguendo le stagioni di crescita di diversi cibi selvatici. Tra le piante di cui si nutrivano c’è il teosinte ed è la versione selvatica del “nostro” mais. Dopo migliaia di anni di coltivazione, la dimensione del seme è aumentata dell’80%, il numero dei chicchi del 300% e le pannocchie sono diventate 60 volte più grandi.
Nel 1493, quando Cristoforo Colombo portò la prima pannocchia alla corte della regina Isabella, l’estensione del mais andava dal sud del Cile al nord del Canada, e alla fine del XVI secolo venne piantato pure in Africa e in Cina. Intorno al 1890 le grandi piantagioni di mais ibrido avevano talmente trasformato il paesaggio del Midwest americano che l’area venne chiamata Corn Belt. Gli USA diventarono rapidamente il principale esportatore di mais in Europa.
L’introduzione di fertilizzanti e pesticidi
La svolta industriale nella coltivazione del mais avvenne alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando gli statunitensi si ritrovarono con enormi quantità di nitrato d’ammonio –principale ingrediente per la costruzione di bombe – ma che risultava anche un’ottima fonte di azoto per le piante. Fu così che l’industria militare si convertì nella produzione di fertilizzanti e pesticidi, anch’essi sottoprodotti bellici. «Stiamo ancora finendo di mangiare gli avanzi della Seconda Guerra Mondiale», così Vandana Shiva ha commentato questo shift. Una riconversione che fece “esplodere” la produzione delle varietà ibride. Il mais ibrido, infatti, è tra le piante coltivate più voraci di azoto. Gli ibridi portarono molti più chicchi agli agricoltori, ma li privarono della possibilità di preservare e ripiantare il loro mais, divennero così dipendenti dai prodotti di una nuova industria in forte crescita: quella delle aziende sementiere.
Con l’introduzione dei concimi sintetici si è data la possibilità agli agricoltori di seminare mais tutti gli anni e su tutti i terreni disponibili, senza il bisogno di letame e rotazioni delle colture. In questo modo si diede il benvenuto alle monocolture e alla meccanizzazione delle campagne. Pollan scrive: «Più della metà dell’azoto sintetico oggi prodotto nel mondo va a finire in un campo di granoturco».

Che cosa c’entra l’allevamento intensivo?
Ibridi, azoto e trattori: appena questo trittico cominciò a spopolare immense quantità di mais a buon mercato resero economicamente più conveniente rinchiudere bovini, polli e maiali in grandi stalle e alimentarli con i mangimi. Dagli anni Cinquanta, gli USA insegnarono al mondo che era più produttivo trasferire gli animali nei capannoni che lasciarli pascolare sui prati. Chi ancora allevava all’aperto non poteva più competere con l’allevamento intensivo. E quando il prezzo del mais calava se ne piantava ancor di più per compensare le spese e inseguire i guadagni.
Il mais è il secondo alimento più coltivato sul Pianeta, con 1,2 miliardi di tonnellate, è dietro solo alla canna da zucchero (1,8 miliardi), di soia se ne produce poco meno di 400 milioni di tonnellate. Gli Stati Uniti, sono ancora i numeri uno, producono il 30% del mais mondiale. La superficie che destinano alla coltivazione del granoturco (345 mila km²) è grande quasi come l’intera Germania. Il mais è il principale componente utilizzato per alimentare gli animali negli allevamenti americani, il 40% della produzione totale finisce in mangimi.
E in Italia come siamo messi?
In Italia nel 2021 si sono coltivati 5.880 km² di mais, con una produzione di circa 6,1 milioni di tonnellate e un’importazione di 5,2 milioni di tonnellate. Nel complesso, il 70% del mais disponibile nel nostro Paese è stato destinato all’alimentazione animale. Secondo Assalzoo. per soddisfare la domanda della zootecnia nazionale dovremmo coltivare almeno 300 mila ettari in più di mais. Facendo due calcoli viene fuori che solo per il fabbisogno di mais necessario a nutrire gli allevamenti italiani, ci servirebbe uno spazio grande quasi come la superficie delle Marche.
Il granoturco è il principale ingrediente utilizzato nella composizione dei mangimi, largamente davanti alla soia (farine d’estrazione di semi oleosi). Un altro aspetto di cui poco si parla è la resa dei mangimi rispetto alla quantità di carne prodotta. Per ottenere 1 kg di carne di pollo ci vogliono circa 3 kg di mangime e per la carne di maiale il rapporto è 1:4.
Mais e siccità
Secondo un manuale sulla coltivazione del mais, tecnico: «L’enorme potenzialità produttiva del mais può esplicarsi appieno solo in corrispondenza con il totale soddisfacimento delle esigenze idriche della coltura, il che comporta spesso un apporto idrico considerevole». A quanto riportano i dati dell’Istat, tra il 2010 e il 2020, i terreni dedicati al mais sono diminuiti del 35%: «per una serie di criticità convergenti: contrazione dei prezzi, elevati costi fissi e maggior rischio sanitario». Non si parla esplicitamente di siccità, ma Coldiretti afferma: «La siccità ha un impatto devastante sulle produzioni nazionali che fanno segnare cali del 45% per il mais e i foraggi che servono all’alimentazione degli animali». In poche parole coltivare mais è diventato più difficile e più costoso e la motivazione principale è la crisi climatica.