Un mondo vegano farà perdere posti di lavoro?


Maria Mancuso
Web content editor

Una delle critiche mosse alla scelta vegan — o a qualsiasi invito a ridurre il consumo di prodotti animali — è che questa manderebbe in crisi il settore zootecnico, facendo perdere il lavoro a milioni di persone. Ma è davvero così?

Iniziamo col dire qualcosa di fondamentale: chiedere la chiusura degli allevamenti intensivi perché causano la sofferenza degli animali e sono insostenibili a livello ambientale, non vuol dire desiderare che gli allevatori e le loro famiglie finiscano per strada. A prova di questo, alcune iniziative rivolte a convertire queste attività in aziende che producono cereali, frutta o ortaggi sono portate avanti da associazioni come la nostra — negli Stati Uniti ad esempio c’è Transfarmation.  

Si perderebbero davvero dei posti di lavoro?

Recentemente, uno studio della Cornell University ha provato a quantificare la perdita di posti di lavoro nell’eventualità che la produzione di carne bovina fosse sostituita con quella di alternative vegetali. I loro calcoli suggeriscono che oltre 1,5 milioni di persone potrebbero perdere il loro impiego, ma questo disavanzo verrebbe compensato con la crescita di altri settori legati alla produzione e alla lavorazione di vegetali. Un altro studio, questa volta dell’International Labour Organization e la Inter-American Development Bank, ha stimato che una transizione verso l’alimentazione vegetale farebbe perdere 4,3 milioni di posti di lavoro, ma porterebbe impiego a 19 milioni di persone solo in America del Sud e Caraibi.

Fatto ancora più cruciale di cui non si parla abbastanza è che gli allevatori — parliamo soprattutto di quelli di piccola scala — stanno già perdendo il lavoro e questo è dovuto al fatto che negli ultimi 30 anni produrre carne e derivati è diventato molto più oneroso e complicato. In Italia come nel resto del mondo, i piccoli allevatori si sono ritrovati a competere con enormi aziende che possono abbattere i costi, producendo molto di più.

Le modalità di produzione sono cambiate, in pochissimi riescono a guadagnare abbastanza continuando a produrre come si faceva in passato e le nuove generazioni sono sempre meno interessate a questo mestiere. Tutto questo non è dipeso dall’aumento della sensibilità, se c’è stata, verso i diritti degli animali, né dall’incremento del numero di vegetariani e vegani.

Il 99,8% dei polli italiani viene allevato in allevamenti intensivi che si assestano su una capienza media per complesso di oltre 30 mila animali.
© Essere Animali

Le conseguenze della produzione zootecnica

In ogni caso, questo non può essere un motivo per rimproverare chi non vuole più mangiare carne e derivati per motivi etici. La stragrande maggioranza dei prodotti animali che vengono consumati in Italia e nei Paesi occidentali provengono da allevamenti intensivi, non da quelli di piccola scala, quindi da luoghi che provocano una sofferenza enorme agli animali e che hanno un impatto sui diritti umani, sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori stessi impiegati dall’industria zootecnica.

L’allevamento intensivo così com’è oggi, infatti, richiede quantità enormi di terreni per pascoli e mangimi, anche a costo di deforestare aree che invece sono fondamentali per la vita di moltissime specie animali e vegetali selvatiche, nonché per assorbire CO2 e produrre ossigeno. Non solo, come molte organizzazioni per i diritti umani hanno dimostrato, gli interessi dell’agribusiness mettono a rischio la sopravvivenza di popolazioni indigene che subiscono continui attacchi, anche mortali, da parte di aziende del settore.

Le condizioni di chi lavora negli allevamenti intensivi e nei macelli

Infine, per quanto riguarda i lavoratori impiegati nella filiera, basta leggere inchieste come questa o la nostra testimonianza per capire che spesso a lavorare nei macelli e nei grandi allevamenti intensivi sono persone vulnerabili, come ex detenuti o persone straniere, magari senza documenti o alternative di impiego

Negli Stati Uniti, i lavoratori nell’industria della carne hanno il maggior tasso di infortunio sul lavoro rispetto a tutte le industrie manifatturiere e hanno tre volte più probabilità di subire lesioni, come scottature o amputazioni, rispetto all’operaio medio. Inoltre, diversi psicologi affermano che molti lavoratori dei macelli vivono dei veri e propri traumi e manifestano depressione, ostilità, panico, paranoia, psicosi e incubi.

A novembre di quest’anno, funzionari del dipartimento del lavoro statunitense hanno accusato l’azienda Packers Sanitation Services Inc. di aver impiegato dozzine di ragazzi di appena 13 anni per pulire impianti di lavorazione della carne. I minorenni  avrebbero lavorato durante dei turni notturni pulendo enormi macchinari e apparecchiature di lavorazione pericolose in tre mattatoi.

Lavoro o bene della collettività?

In un articolo apparso sul Guardian, George Monbiot spiega che nel Regno Unito “campagna” e “aziende agricole” sono sinonimi. Eppure le persone impiegate in queste aziende (che siano allevamenti o producano derrate agricole), rappresentano soltanto lo 0,2% della popolazione totale e  l’1,2% della popolazione rurale. Il che significa che la stragrande maggioranza di chi vive in campagna non lavora nel comparto agricolo o zootecnico. Perché dovrebbero avere tutta questa influenza, si chiede?

Insomma, la critica non regge e forse non dovrebbe essere dovere dei singoli sostenere un settore economico solo perché, nel caso entrasse in crisi, chi vi è impiegato potrebbe perdere il lavoro. Facciamo un esempio diverso: è nostra responsabilità sostenere l’industria dei combustibili fossili, colpevole di aver contribuito al collasso eco-climatico, solo per proteggere dei posti di lavoro?

Vorremmo lo stesso per l’industria delle armi? O del tabacco? Non sarebbe meglio trovare delle alternative di impiego che siano più sostenibili e utili alla società? Insomma, proteggere il lavoro in quanto tale può comportare decisioni moralmente discutibili, nonché creare danni alla collettività, incluse le stesse famiglie di quei lavoratori.