La scrofa blu deve morire: voglio raccontarti la sua storia

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La scrofa blu deve morire: voglio raccontarti la sua storia


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Francesco Ceccarelli
Responsabile investigazioni

Un’esperienza vissuta in prima persona ha cristallizzato in me la convinzione che il binomio animale-macchina imposto dall’allevamento intensivo è funzionale all’azzeramento delle individualità degli animali.

Qualche mese fa, mentre ero alla ricerca su Google Maps di un’azienda che ci era stata segnalata, mi sono imbattuto in uno dei più grandi allevamenti che abbia mai visto. Una struttura gigantesca, con decine e decine di capannoni ammassati l’uno sull’altro. Ero sicuro: conteneva maiali. Oltre alle dimensioni, quello che mi aveva colpito era il suo aspetto ordinato: giardinetti ben curati davanti ai capanni, niente fuori posto e nessuna traccia di sporcizia.

Ho visitato centinaia di allevamenti e paradossalmente, negli ultimi tempi, non sono quelli sporchi e in cattivo stato che mi colpiscono e che mi trasmettono un maggior senso di angoscia. Sono gli allevamenti puliti, quelli di nuova costruzione, tecnologici, con il prato all’inglese intorno ai capanni e i cortili ben spazzati. È in questi luoghi che vedo maniacalità e la pretesa di normalizzare qualcosa che è sbagliato in partenza.

L’allevamento si sviluppa in un’area di 500 metri per 200, la sua superficie è di circa 13 campi da calcio.
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Per questo motivo mi ero ripromesso che qualora fossi passato in zona avrei visitato anche il suo interno per controllare se pulizia e ordine fossero direttamente proporzionali al benessere degli animali che rinchiudeva e se gli elementi visti dall’esterno si traducessero in maggiori spazi vitali per gli animali e l’assenza delle più comuni operazioni di mutilazione.

Dentro uno dei più grandi allevamenti di maiali in Italia

E a qualche settimana dalla scoperta di quel colosso, succede che riesco a entrarci. Dentro trovo la conferma che sì, è più pulito rispetto alla norma, ma identico a tutti gli altri per quanto riguarda il modo in cui vengono trattati gli animali. Le scrofe vivono in gabbie “normali”, il che significa immobilizzazione pressoché totale dei loro corpi e, accanto a loro, suinetti castrati e con la coda tagliata. È un cosiddetto allevamento “da riproduzione” dove nascono maiali che, raggiunti i 30 kg, vengono trasportati in altri allevamenti per essere messi all’ingrasso.

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Il corpo di un suinetto mangiato dai suoi fratelli all’interno della gabbia parto.
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Dopo aver filmato tanti maialini morti, un parto e un suinetto cannibalizzato dai suoi fratelli, mi accorgo che una scrofa in gabbia ha diverse righe blu sulla schiena, tracciate con una bomboletta spray. In quel momento non mi domando il perché di quei segni colorati. Proseguo a filmare gli animali da diverse inquadrature, poi esco.

Sulla strada del ritorno, la mia idea che gli allevamenti puliti e ordinati siano, se è possibile, peggiori degli altri si consolida sempre di più.

Dopo qualche giorno torniamo in zona. Non è più notte fonda ma una bella giornata, cielo terso e zero vento, per cui facciamo volare il drone sopra al mega allevamento. Uno, due passaggi sui capanni e mi accorgo che stanno trasportando dei grossi maiali su un carretto trainato da un trattore. Inizio a seguirlo e dopo qualche curva si dirige verso l’esterno della struttura. Guadagno quota per capire meglio la situazione e vedo un camion parcheggiato in uno spiazzo di cemento. Comprendo al volo che cosa sta succedendo. Si tratta delle scrofe a fine carriera che vengono portate al macello.

Il destino delle scrofe negli allevamenti

Continuo a seguire il carretto scarico per quel dedalo di costruzioni, fino a che parcheggia in retromarcia davanti al capannone dove avevo incontrato la scrofa blu. Così mi abbasso per riprendere più da vicino la scena: gli operai entrano nel capanno ed escono cinque maiali che salgono direttamente nel cassone. “C’è anche lei!”, esclamo tra me e me mentre seguo il carretto. Non è l’unica ad avere dei segni blu sulla schiena ma sono abbastanza sicuro di riconoscerla perché i suoi tratti sono più marcati. Prima di raggiungere la zona di carico, il carrello si ferma sulla pesa e il mio stato d’animo inizia ad appesantirsi.

Conosco bene cosa accade alle scrofe, lo so che dopo 5/7 gravidanze, all’età di 3 o 4 anni vengono “riformate”, termine tecnico per “fanno una brutta fine”. Ma lei l’ho incontrata qualche sera prima, mi guardava mentre cercava, come poteva, considerato il suo corpo bloccato, di badare ai suoi cuccioli. Nonostante tutto quello che ha dovuto passare mi sembrava abbastanza serena e in forma, ma ora è su un carretto e fra pochi minuti verrà caricata su un camion per la destinazione finale.

Nell’arco di 30 minuti almeno una trentina di scrofe sono state caricate sul camion.
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È la prima che scende dal carretto, spinta dai pungoli elettrici degli addetti, sale la rampa con molta calma e poi indugia, un po’ troppo secondo gli operatori che la colpiscono per farla entrare sul camion. Il carico continua ma io ho già visto abbastanza e così riporto il drone a terra.

Ogni giorno migliaia di scrofe soffrono negli allevamenti e muoiono nei macelli. Solo in Italia ce ne sono 526 mila e in Europa oltre 11 milioni. Tutte queste, che vivano in un allevamento ben curato o meno, non hanno che un unico destino: diventare scrofe blu.


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