COP26 sul clima a Glasgow: le azioni dei governi non sono sufficienti


Maria Mancuso
Web content editor

In questi giorni di discussioni sul clima alla COP26 di Glasgow, il mondo sta guardando ai potenti della Terra col fiato sospeso: saranno le loro decisioni all’altezza della sfida che abbiamo davanti?  

Le iniziative dei leader mondiali riuniti a Glasgow finora stanno deludendo fortemente le aspettative delle cittadine e dei cittadini. Stamattina è circolata la notizia di una bozza dell’accordo, che però non è abbastanza coraggioso. Nei giorni scorsi si è anche parlato anche di un impegno contro la deforestazione e di uno contro le emissioni di metano, ma anch’essi sono insufficienti.

© Fridays For Future Italia

L’accordo sulla deforestazione

Il Global deforestation pledge, sottoscritto da oltre 100 Paesi consiste nell’impegno a interrompere la distruzione delle foreste entro il 2030 e così ridurre le emissioni nocive. Le foreste mondiali infatti funzionano come regolatori del clima e “sequestratori” di CO2. Tra gli Stati a essersi assunti degli obblighi ci sono Cina e Russia (che però non si sono presentate di persona), Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Brasile, che, come sappiamo, è centrale perché ospita la maggior parte della foresta amazzonica, poi il Canada con la foresta boreale e la Repubblica Democratica del Congo, dove si trova la foresta tropicale.  

Secondo il World Resources Institute (WRI), se la distruzione delle foreste tropicali fosse un Paese, sarebbe il terzo emettitore di anidride carbonica a livello mondiale. Come sappiamo fin troppo bene, l’allevamento bovini e le colture di soia utilizzata come mangime per polli e maiali sono tra le maggiori cause di deforestazione dell’Amazzonia. E circa il 70% delle aree agricole nella regione amazzonica sono utilizzate dall’industria della carne.

© Tommaso Perrone

L’accordo sul metano

L’impegno sul metano, il Global methane pledge, prevede un taglio delle emissioni di metano del 30% entro il 2030. Tra i firmatari ci sono gli Stati Uniti, il Brasile, la Germania e l’Italia, ma mancano Australia, Iran, India, Cina e Russia. Apparentemente questo piano sembrerebbe un passo avanti, se non fosse che questo piano ignora del tutto gli allevamenti intensivi, una delle maggiori fonti di questo gas.

Il settore zootecnico infatti produce circa il 32% di tutte le emissioni antropiche di metano e la produzione di carne e derivati, nel suo complesso, è responsabile del 60% delle emissioni di gas serra provenienti dal sistema alimentare e del 20% di quelle globali. 

Azioni timide e insufficienti

Purtroppo le delusioni non finiscono qui: dati alla mano, sappiamo ormai da diversi anni che l’alimentazione più sostenibile è quella vegetale — che è anche quella meno crudele verso gli animali e migliore per la nostra salute. Eppure, a differenza di quanto promesso inizialmente, la maggior parte dei piatti destinati ai delegati della COP26 contengono principalmente carne e latticini.

Una scelta totalmente irresponsabile che sembra uno schiaffo in faccia ai milioni di cittadini che hanno già ridotto drasticamente il loro consumo di proteine animali in nome del clima e che si aspettano che i propri rappresentanti facciano lo stesso. 

COP 26 Blocchi notturni di fronte ai ristoranti dove cenano manager delle grandi corporation del fossile ed esponenti della Banca Mondiale. Video da Glasgow #cop26 #climateaction #climatejustice #glasgow

Pubblicato da DINAMOpress su Lunedì 8 novembre 2021

È chiaro ormai che la soluzione per la crisi climatica passa dal nostro piatto e Essere Animali non smetterà mai di ribadirlo e di sensibilizzare il pubblico su questa scelta. “Abbiamo bisogno di un cambiamento della dieta e non del clima”: è il messaggio della campagna Diet Change Not Climate Change coordinata da Pro Veg International che abbiamo sottoscritto. Un cambiamento che sembra spaventare, soprattutto chi ci governa e che dovrebbe tutelare la nostra salute e quella delle generazioni a venire.

Secondo il giornalista George Monbiot, gli esseri umani non mettono la propria sopravvivenza al primo posto, non hanno quindi un istinto alla sopravvivenza simile a quello degli animali. Il modo in cui stiamo gestendo la crisi climatica ne è una prova inconfutabile: nonostante tutti gli indizi che abbiamo di fronte, continuiamo a mantenere lo status quo, il business as usual. Persino una pandemia globale scaturita da un virus zoonotico — e quindi animale — non ha spinto chi ha potere a cambiare le cose, o meglio a stravolgere quella normalità che ci ha portati al punto del non ritorno.  

Bisogna promuovere l’alimentazione vegetale

Come spiega l’organizzazione Sentient Media, sono 8 le iniziative che i nostri leader devono prendere il prima possibile: stop ai finanziamenti agli allevamenti intensivi, regolamentazione delle emissioni degli allevamenti, moratoria sui nuovi allevamenti, impatto climatico delgi alimenti in etichetta, investimenti nelle proteine vegetali, diffusione di un’alimentazione veg, cibi veg nella pubblica amministrazione e nelle mense e incentivi all’agricoltura per il consumo umano (e non quello degli animali). 

In altre parole: se davvero i nostri leader vogliono evitare che le temperature medie globali aumentino oltre 1,5 °C, devono affrontare l’elefante nella stanza: l’attuale sistema alimentare basato sulle proteine animali. Passare a un’alimentazione a base vegetale potrebbe ridurre le emissioni legate al cibo del 50%, ma deve essere uno sforzo collettivo, soprattutto dei Paesi più ricchi, e non un’azione delegata ai singoli cittadini. Questo è ciò di cui c’è bisogno e negare l’evidenza ci porterà dritti verso una crisi che richiederà sacrifici ben più grandi della riduzione drastica dei prodotti animali.