Sfatiamo i miti sulle mucche e i vitelli con un veterinario
Abbiamo raccolto le vostre domande sulle mucche e i vitelli rinchiusi negli allevamenti intensivi e ne abbiamo discusso con Enrico Moriconi, medico veterinario, consulente in etologia e garante per i diritti animali della Regione Piemonte.
Buongiorno dott. Moriconi. Potrebbe parlarci di quali disagi reca, nella madre e nel vitello, la separazione appena dopo il parto, così come avviene in un allevamento intensivo?
La separazione tra madre e figlio costituisce la privazione di un bisogno etologico e di conseguenza genera sofferenza a entrambi. Il comportamento etologico di questi animali prevede l’allattamento, ma anche che tra la madre e il vitello ci siano rapporti di scambio e contatto reciproci. Ad esempio la madre lecca il vitello appena dopo la nascita e nei primi giorni dopo il parto: sono quei meccanismi fondamentali nella vita in branco perché l’imprinting serve al vitello per riconoscere la madre tra le altre femmine e andare a poppare. E anche se la vita in allevamento è diversa, i comportamenti etologici degli animali sono inscritti nel loro DNA e quindi rimangono attivi.
Come si manifesta questa sofferenza?
Si manifesta con muggiti sia della madre che del vitello, che si chiamano l’un l’altro e si cercano.
Per quanto tempo un vitello dovrebbe stare con la madre invece?

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Nel branco i vitelli praticamente non si allontanano mai dalla madre, soprattutto le femmine. In alcuni casi ai maschi in età adulta vengono scacciati, ma raramente. La forma meno traumatica sarebbe quella che prevede di lasciare il tempo al vitello di diventare autonomo nell’alimentazione: in altre parole, aspettare lo svezzamento, che avviene tra i 4 e i 6 mesi. Ma oggi i vitelli vengono allontanati anche il giorno stesso del parto.
Perché queste tempistiche non sono rispettate negli allevamenti?
Queste tempistiche non possono essere garantite da nessun sistema di allevamento perché i primi giorni dopo il parto la mucca ha la montata lattea e quindi c’è convenienza a separarla dal vitello e a mungerla. Inoltre dopo tre mesi dal parto la produzione di latte viene a calare, quindi se si si aspettasse lo svezzamento del vitello si perderebbero i mesi migliori per il ricavo economico.
È possibile ottenere del latte dalle mucche senza interferire con il loro benessere e quello del figlio?
Nel sistema industriale no, perché per avere il latte da vendere è necessario evitare che il vitello lo succhi. Ad esempio in Francia, negli allevamenti in cui le mucche vengono allevate allo stato brado per la produzione di carne, le mucche partoriscono all’aperto naturalmente e i vitelli vengono lasciati con la madre, ma questo solo perché l’allevatore li alleva per venderne la carne. Produrre latte significa allontanare il vitello dalla madre, in tutti i tipi di allevamento.
In una situazione così innaturale come quella di un allevamento intensivo, tra madre e vitello si crea comunque un legame forte? Si riconoscono dopo la separazione o si dimenticano l’uno dell’altro?
Assolutamente sì, il legame si crea nel momento stesso in cui il vitello nasce. Questo perché sentono gli odori l’uno dell’altra e si riconoscono, anche se non c’è più la vita nel branco. Alla seconda domanda è difficile rispondere: teoricamente il riconoscimento è basato sull’olfatto quindi la memoria reciproca potrebbe conservarsi, però non ci sono studi che dimostrino quanto il riconoscimento sia possibile dopo un lungo periodo. Ci sono testimonianze sia a favore che contrarie.
Nella sua esperienza, quali e quanto frequenti sono le patologie che le mucche sfruttate per la produzione di latte sviluppano?

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Le patologie più frequenti sono le mastiti e le malattie dello zoccolo. La prima è dovuta allo sfruttamento della ghiandola mammaria e la seconda al permanere per periodi consistenti in aree umide (ad esempio immersi nelle deiezioni). Sulla frequenza non si può dare una stima perché sono oggetto di prevenzione da parte degli allevatori, nel senso che le mastiti sono prevenute anche farmacologicamente con antibiotici che vengono comunemente somministrati negli ultimi mesi di gravidanza — il periodo “dell’asciutta”, chiamato così perché la bovina non produce latte — per prevenire future patologie. È chiaro che se le tecniche di prevenzione funzionano la mastite non si sviluppa.
Esistono degli esami che possono accertare lo stato di benessere di un animale?
L’analisi del benessere non esiste, quello che possiamo valutare è la presenza di stress. Ci sono una serie di ormoni la cui presenza, se alterata, viene considerata un indicatore di stress — il cortisolo è quello più comune. Per fare valutazioni coerenti si dovrebbe fare una sieroconversione: un esame a distanza di 20 giorni. Se il livello del cortisolo è molto alto, in entrambi i casi vuol dire che c’è dello stress.
Quando vengono fatti questi esami?
Mai. Perché non vengono richiesti da nessuna legge. Il benessere viene stabilito dalle leggi, non attraverso dei test agli animali e il benessere non viene mai considerato come un concetto “assoluto”, ma è condizionato alle necessità di allevamento. Gli allevatori sono tenuti ad allevare gli animali nel rispetto di alcune condizioni di base, che sono stabilite dalla legge, ma queste non possono prescindere dalla necessità per loro di continuare a ottenere un ricavo economico.
Questi esami si potrebbero utilizzare come prova di un maltrattamento?
Il maltrattamento richiede la dimostrazione della colpa individuale o collettiva degli esseri umani nel provocare le condizioni che hanno caratterizzato una sofferenza dell’animale. Lo stato di stress dell’animale di per sé non è sufficiente.
Questi animali sono in grado di comprendere quando stanno per morire all’interno del macello?

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Sulla base degli studi che abbiamo a disposizione possiamo dire che sicuramente gli animali quando arrivano al macello sono sottoposti a una carica forte di stress. Arrivano da un trasporto e uno scarico pesanti, a cui si aggiunge la paura di trovarsi in un ambiente sconosciuto e di procedere lungo un corridoio che li introduce alla sala cosiddetta dello stordimento. Tutte queste condizioni provocano i segnali che gli animali emettono quando hanno paura: lamenti, ritrosie. La manifestazione di stress viene percepita, attraverso l’olfatto soprattutto, da tutti gli animali presenti, ma anche da quelli che arriveranno dopo perché certi odori rimarranno. Tuttavia, anche se gli animali sono capaci di comprendere che la situazione è negativa per loro, non sappiamo se sono capaci di concepire che cos’è la morte. L’animale può vedere che a un suo simile viene fatto qualcosa che ne provoca delle conseguenze negative e può provare della paura per questo, però non sappiamo se può capire che morirà.