Inquinamento ambientale, problematiche sociali e sofferenza degli animali: l’acquacoltura e la pesca industriale sono facce della stessa medaglia.
L’uscita nel 2021 di Seaspiracy, il documentario diretto dal filmmaker britannico Ali Tabrizi e disponibile su Netflix, ha riportato al centro del dibattito l’impatto che la pesca industriale ha sull’ecosistema marino e terrestre. Molti di coloro che l’hanno visto si sono chiesti se sia possibile continuare a mantenere gli attuali consumi di pesce e allo stesso tempo garantire al nostro Pianeta un futuro.
La risposta è semplice: no. Come dimostrano vari report, a questo ritmo gli oceani si svuoteranno molto presto. E questo non avrà un impatto soltanto sulla disponibilità degli stock ittici, ma sull’intero ecosistema che dalla salute degli oceani dipende fortemente.
Di fronte ai danni causati dalla pesca industriale con le sue devastanti reti a strascico, le tonnellate di rifiuti plastici e la distruzione del fondale marino, alcuni propongono come soluzione l’acquacoltura, vale a dire l’allevamento — principalmente intensivo — di pesci e altri animali acquatici sia in impianti sulla terraferma che in gabbie marine lungo la costa. E mentre il pesce nel mare scompare, l’acquacoltura cresce impetuosamente, anche grazie a ingenti sussidi pubblici. Ma è davvero una buona alternativa?
Acquacoltura: i mangimi derivano dagli stock ittici selvatici
Gli allevamenti di pesci non possono essere un’alternativa alla pesca industriale perché il mangime che viene dato ai pesci nelle gabbie è formato proprio da farina e olio di pesce proveniente dagli stock ittici selvatici. Quindi: senza la pesca industriale l’acquacoltura non potrebbe esistere.
La quantità di farina e olio varia in base alla specie e alla nazione in cui vengono allevati i pesci, ma per fare solo un esempio, il mangime dato alle orate e ai branzini nel Mediterraneo è costituito per circa un terzo da farina e olio di pesce. Secondo un articolo pubblicato su International Aquafeed magazine, per ogni chilo di orata viene utilizzato dagli 1,8 ai 2,2 kg di mangime.
A livello globale, secondo i calcoli di Fishcount, la stima annuale tra il 2007 il 2016 dei pesci pescati per la produzione di farina e olio di pesce si aggira tra gli 0,5 – 1 trilione di individui. Una cifra difficile persino da immaginare. Di questi, la maggior parte è destinata all’acquacoltura e all’allevamento di altre specie terrestri, come suini e polli da carne. Solo una piccola parte è destinata al consumo umano diretto.
Secondo il report Blue Loss dell’Aquatic Life Institute sono invece circa 1,2 trilioni gli animali acquatici utilizzati ogni anno per alimentare altri animali acquatici: si tratta di circa un terzo delle catture totali di pesce selvatico.
Acquacoltura: i problemi ambientali
Dal punto di vista ambientale, questo settore è finito sotto i riflettori — anche di Seaspiracy — per la cattiva gestione dei rifiuti organici (mangime e deiezioni), residui di farmaci e sostanze chimiche nell’ambiente circostante.

Gli allevamenti di pesci non sono diversi da quelli che si trovano sulla terraferma: gli animali vengono nutriti con mangimi e curati (anche in maniera preventiva) con antibiotici. E questi possono diffondersi al di là delle gabbie senza trovare alcuna barriera.
Secondo uno studio del 2011 condotto negli allevamenti ittici greci, un impianto che produce 100 tonnellate di pesce scarica in mare 9 tonnellate di azoto, dissolto in acqua o come sedimentato sul fondale, insieme ad altre sostanze, in particolare il fosforo. Nonostante i progressi tecnologici sui mangimi per diminuire questo impatto, diverse ricerche confermano la persistenza del problema.
Acquacoltura: la sofferenza degli animali
Come mostrano le nostre indagini, realizzate negli allevamenti ittici dell’Unione Europea, questi luoghi sono fonte di dolore e di stress per gli animali.
I pesci rinchiusi nelle gabbie in mare o in vasche a terra vivono in condizioni di sovraffollamento e sporcizia, dove l’insorgenza di malattie è inevitabile. Le loro difese immunitarie sono basse e il poco spazio li rende più esposti a batteri e virus.
Il loro dolore continua anche quando vengono rimossi dall’acqua per essere macellati: vengono pescati con grosse reti dove si feriscono nel tentativo di fuggire o muoiono schiacciati dal peso degli altri individui. Senza essere sottoposti a stordimento adeguato vengono lanciati in vasche piene di acqua e ghiaccio dove muoiono per assideramento o asfissia dopo un’agonia lunga decine di minuti.
Acquacoltura: i problemi sociali, l’epidemia di Ebola
Facendo aumentare la richiesta di farina e olio di pesce destinati a diventare mangime, l’acquacoltura si dimostra insostenibile anche a livello sociale. Secondo il report Until the sea runs dry, il 90% del pesce utilizzato per la produzione di farina e olio di pesce potrebbe essere destinato al consumo umano diretto, soprattutto di quelle popolazioni che dipendono dalla pesca artigianale.
In un report del 2019, Greenpeace metteva in evidenza come la pesca di piccoli pesci pelagici come acciughe, sardine, aringhe, sgombro abbia messo in pericolo il sostentamento di intere popolazioni di Paesi affacciati sul mare dell’Africa occidentale come il Senegal.
Questo non solo ha portato a condizioni di vita più dure per quelle persone, ma sembra essere anche una delle ragioni alla base dello scoppio dell’epidemia di Ebola che tra il 2014 e il 2016 ha portato alla morte di 11.325 persone in dieci Paesi (Liberia, Guinea, Sierra Leone, Mali, Nigeria, Senegal, Spagna, Regno Unito, Italia e Stati Uniti d’America). Questo perché la mancanza di disponibilità di pesce ha spinto le popolazioni locali a ricorrere al consumo di carne selvatica, aumentando il rischio (e la certezza) di uno spillover.
La soluzione? Un’alimentazione a base vegetale
Le problematiche sociali e ambientali, direttamente o indirettamente, causate dall’acquacoltura e della pesca industriale sono devastanti per gli animali acquatici, intere comunità e il Pianeta stesso. Eliminare il consumo di pesce è l’unica soluzione a un problema che ha effetti sul presente e sul futuro della vita sulla Terra.
L’alimentazione vegetale non causa sofferenze agli animali ed è anzi l’azione più importante che puoi fare per diminuire il tuo impatto ambientale, salvare gli oceani ed evitare di causare la sofferenza di miliardi di pesci ogni anno.