Il COVID-19 ci avvisa che più grandi sono gli allevamenti più letali sono i virus
Nonostante le circostanze attorno alla comparsa del COVID-19 non siano ancora del tutto chiare, sappiamo di per certo che la causa dell’attuale pandemia è da far risalire alla relazione che l’uomo ha con altre specie animali. Il COVID-19 è una malattia zoonotica ‒ cioè trasmessa dagli animali all’uomo attraverso un salto di specie detto spillover.
Altre malattie di questo tipo sono la SARS, Ebola, Zika, Mers, le infezioni da Escherichia coli, Campylobacter e Salmonella, oltre all’influenza aviaria e a quella suina che proliferano negli allevamenti intensivi. Come abbiamo scritto a marzo, lo scenario più probabile indica che il serbatoio del patogeno sia una specie di pipistrello presente in Cina e che il COVID-19 sia arrivato all’uomo attraverso un ospite intermedio. Quindi, a differenza dell’influenza aviaria o di quella suina, ma similmente alla SARS, il COVID-19 non proviene da un animale in allevamento. Nonostante ciò, è proprio lo sfruttamento di animali in allevamenti intensivi ad avere favorito le condizioni alla base perché il virus si spostasse dal pipistrello all’uomo.
Inoltre la puntata del 13 aprile di Report, a cui hanno contribuito anche i nostri investigatori, ha chiarito come lo smaltimento dei liquami animali ‒ e l’inquinamento atmosferico possano giocare un ruolo chiave nella diffusione del virus. Secondo l’Arpa, in Lombardia, l’85% delle emissioni di ammoniaca è causata dagli allevamenti, nello specifico dai loro liquami, e l’ammoniaca è uno dei principali fattori della formazione di PM10.
Gli allevamenti intensivi hanno cambiato il mercato della carne cinese
Se andiamo a considerare le cause per cui sia avvenuto lo spillover da una specie all’altra, un tassello che ci aiuta a completare, seppure parzialmente, il quadro è la trasformazione del modello di produzione di carne avvenuta in Cina a partire dagli anni ‘90, che ha colpito i piccoli allevamenti familiari e sconvolto le aree rurali.

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Come racconta Stefano Liberti nel capitolo dedicato alla produzione di carne suina ne I signori del cibo, nella Cina di un tempo le famiglie mangiavano carne due volte l’anno, mentre oggi il maiale «è marchio di status ‒ mangiare carne rappresenta il segno più tangibile dell’ascesa sociale, dell’uscita dalla miseria e dalla sussistenza». Questo ha portato ad un’esplosione del consumo di carne: nel 1970 un cittadino cinese ne consumava in media 8 chilogrammi all’anno, mentre oggi ne mangia cinque volte tanto.
Una delle incarnazioni più paradigmatiche di questa trasformazione dell’industria alimentare cinese sono i CAFO (Concentrated Animal Feeding Operations), vale a dire allevamenti su scala industriale che hanno l’obiettivo di produrre la maggiore quantità di carne nel più breve tempo possibile per sfamare un mercato in enorme crescita. La presenza di enormi allevamenti industriali ha spinto fuori dal mercato i piccoli allevamenti familiari che non hanno potuto reggere la competizione. Inoltre, dal punto di vista geografico, gli allevamenti industriali hanno iniziato ad occupare sempre più terra spingendo i piccoli allevatori verso zone incoltivabili, vicino alle foreste. Motivo che ha portato molti di questi allevatori a ripiegare verso altre attività economiche.
I wet market sono la risposta sbagliata a un’industria sbagliata
In molti hanno quindi iniziato a cacciare animali selvatici da vendere nei “wet market”. In alcuni casi perché considerati prelibati, in altri per motivi terapeutici – gli organi di certi animali sono secondo la medicina cinese efficaci per la cura di alcuni malanni.

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Con l’aumentare della presenza dell’uomo in ecosistemi dove pipistrelli e altri animali selvatici potevano in passato vivere indisturbati, è aumentato enormemente anche il rischio del salto della specie del virus da un animale all’essere umano. La diffusione del COVID-19 ne è una prova e ci dà la misura di quanto l’uomo sia parte di un ecosistema che non bada a confini di specie, né a quelli geografici ‒ nonostante i nomi che l’uomo dà ai patogeni, questi non sono davvero “cinesi”, “spagnoli” o di qualsiasi altra nazionalità si cerchi di attribuire loro.
Il bene degli animali è anche il bene per gli essere umani
Che cosa possiamo imparare da questo? Una lezione importante è che per ridurre i rischi della salute umana è sempre più necessario occuparsi anche di quella animale. Come raccontano Jonathan Safran Foer, autore tra gli altri di Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, e Aaron S. Gross sul The Guardian, in questo momento: «Siamo preoccupati della produzione di mascherine per il viso, ma sembriamo indifferenti alle fattorie che producono pandemie. Il mondo sta bruciando e noi ci armiamo di estintori mentre la benzina bagna la miccia che abbiamo ai piedi».
Che cosa vuol dire concretamente prenderci cura della salute animale? Un primo passo potrebbe essere limitare l’interazione umana con animali selvatici. Ma questo non basta, date le condizioni degli allevamenti in Italia o nel resto d’Europa, nessuno può assicurarci che la prossima epidemia non esploda a pochi chilometri da casa nostra. Qualcuno ricorderà che la BSE (Encefalopatia Spongiforme Bovina), l’epidemia prodotta dalla Salmonella DT104 o quella dall’Escherichia coli 0157 sono patologie nate proprio in allevamenti europei.
Nel libro Big farms make big flu pubblicato nel 2016, Rob Wallace spiega che negli allevamenti in cui vivono ammassati centinaia, migliaia di polli e tacchini selezionati geneticamente, per motivi puramente commerciali, un virus può agire indisturbato senza di fatto incontrare varianti genetiche che ne possano impedire la diffusione, con il rischio che venga poi trasmesso agli esseri umani. Oltretutto, come spiega ancora Wallace, possiamo considerarci in qualche modo fortunati perché il COVID-19 è di gran lunga meno letale di altri virus, come l’H7N9 il cui tasso di letalità è di oltre il 30%, oppure l’H5N1, ancora più pericoloso. Negli Stati Uniti il grado di letalità del COVID-19 è stato finora di meno del 2% con oltre 48 mila decessi, ma se ci fosse stata una pandemia di H5N1, secondo il CDC (Centers for Disease Control and Prevention) il tasso di letalità sarebbe arrivato al 60%.
Il fatto che non ci sia stata però non ci può far abbassare la guardia: se l’H5N1 non ha raggiunto le proporzioni di una pandemia non vuol dire che sia sparito. Al contrario, nessuno può garantire che il virus non sia a un passo dalla mutazione genetica che potrebbe permettergli di aumentare ulteriormente il suo tasso di letalità. E se le conseguenze di una pandemia come il COVID-19 con un tasso dell’1,14% per l’Italia è di fronte agli occhi di tutti, possiamo invece immaginare che cosa potrebbe voler dire se il mondo fosse colpito da una pandemia che uccide il 60% delle persone che contraggono il virus? Non vale la pena riflettere su cosa possiamo sacrificare adesso, per evitare una catastrofe domani?
Considerati questi rischi e tutte le morti attribuibili ogni anno al consumo di carne, viene da chiedersi che cosa spinga ancora i governi di tutto il mondo a offrire ingenti sussidi agli allevamenti. Soltanto nell’Unione Europea, tramite la PAC (Politica Agricola Comune), il settore zootecnico recepisce tra i 28 e i 32 miliardi di euro ogni anno, sia direttamente che indirettamente tramite la produzione di mangimi. Questa somma rappresenta circa il 20% del bilancio totale dell’UE, fondi che potrebbero essere spesi per promuovere un’agricoltura sostenibile, amica degli animali e rispettosa per l’ambiente, oltre che per rimediare ai feroci tagli alla sanità pubblica avvenuti nell’ultimo decennio.