“Benessere animale” sulle confezioni: è solo marketing, Rai3 mostra la verità
È una novità del mercato: carne, latte, presto le uova, etichettate e certificate “Benessere animale“. Che significato ha questa dicitura? Come si ottiene e quali sono le differenze rispetto ad altri metodi di allevamento? Questo il tema della puntata di Indovina chi viene a cena andata in onda ieri sera, in cui la giornalista Sabrina Giannini ha mostrato immagini realizzate assieme al nostro team investigativo, con cui si è recata direttamente negli allevamenti, ma anche video frutto del lavoro dei nostri attivisti infiltrati.
Qualche abbeveratoio in più e un allevamento di mucche ottiene la certificazione
Sabrina Giannini ha visitato diversi allevamenti già certificati “Benessere animale”, tra cui alcuni fornitori dei marchi Granarolo e Granapadano DOP. Verrebbe da aspettarsi di scorgere mucche al pascolo assieme ai propri vitelli, ma lo stesso allevatore rivela che per avere questa certificazione è stato sufficiente aggiungere qualche abbeveratoio in più. Avete letto bene: per essere certificati “Benessere animale” occorrono un paio di abbeveratoi aggiuntivi.
Nessuna azione concreta per risolvere le problematiche documentate anche nelle nostre indagini: mucche costrette a ritmi di produzione impressionanti, utilizzo di antibiotici, vitelli separati appena dopo il parto e rinchiusi in minuscoli box singoli. Per i cuccioli delle mucche, separati alla nascita dalla madre affinchè il latte sia destinato al consumo umano, la situazione è addirittura paradossale. Uno dei parametri che consente la certificazione “Benessere animale” è la presenza, nei box di stabulazione dei vitelli, di finestre che permettano agli animali di socializzare fra loro. Ma questo aspetto, oltre a non dover essere un parametro di certificazione, perché requisito richiesto anche dalla legge nelle “norme minime per la protezione dei vitelli”, non è nemmeno rispettato.
Alcuni allevamenti visitati dalla giornalista non rispettano nemmeno la legge ed hanno la certificazione “Benessere animale”.
Il “benessere animale” non tiene conto del trasporto
L’inchiesta di Sabrina Giannini continua indagando anche la provenienza di questi animali, la cui carne compare nei supermercati millantando un non preciso benessere negli allevamenti. Le certificazioni mostrano tutto il loro inganno, non solo non vi sono parametri che valutino la fase del trasporto degli animali dall’allevamento al macello, momento molto delicato e in cui potrebbero essere prese precauzioni per garantire agli animali una minor sofferenza, anche migliorando i requisiti minimi imposti dalla legge. Ma addirittura le certificazioni “Benessere Animale” vengono rilasciate anche nel caso l’animale provenga da allevamenti situati all’estero e abbia viaggiato per giorni per essere ingrassato o macellato in Italia.
Nulla si sa sul passato di questi animali, del metodo utilizzato per allevarli. Di certo vi è solo che hanno subito anche le sofferenze dovute ai trasporti di animali vivi su lunga distanza. Come i vitelli mostrati nel servizio di Indovina chi viene a cena, stipati su un camion in arrivo dalla Francia, fermato e multato per un controllo alla frontiera.
Scrofe in gabbia e castrazioni senza anestesia: questo è benessere animale?
Sabrina Giannini mostra anche alcuni allevamenti di maiali che rispecchiano lo standard attuale, documentando come la gran parte di questi non rispettino nemmeno la legge, continuando a praticare la mutilazione sistematica della coda, un’operazione vietata nell’Unione Europea da oltre 25 anni. Il taglio della coda, effettuato su suinetti appena nati senza l’utilizzo di anestesia e analgesia, viene eseguito per limitare il cannibalismo poiché, anche a causa dello stress dovuto alle condizioni intensive di allevamento, i maiali tendono ad aggredirsi fra loro. Ma, oltre ad essere causa di sofferenze per suinetti di pochi giorni di vita, questa mutilazione non riduce il cannibalismo, poiché gli animali, se stressati, si mordono comunque altre parti del corpo, come le orecchie.
Numerose indagini realizzate dal nostro team investigativo mostrano le terribili conseguenze di questo grave problema. Occorrerebbe dunque intervenire alla radice e fornire agli animali della paglia, come già richiede la legge, monitorando allo stesso tempo diversi parametri di gestione dell’allevamento. I maiali infatti trascorrono gran parte del loro tempo a grufolare e un arricchimento ambientale permetterebbe questa attività, disincentivando le aggressioni fra animali. Ma per risparmiare sui costi, si continuano ad infrangere le norme. Per ripulire l’immagine vi sono sempre le fantomatiche etichette sul “Benessere animale”.
Legali, ma comunque crudeli, sono le condizioni di stabulazione delle scrofe, rinchiuse in gabbie grandi quanto il loro corpo durante il periodo della gestazione, parto e allattamento. Queste gabbie, che immobilizzano le scrofe per circa metà della loro vita, sono utilizzate per ottimizzare le attività degli operatori sulla scrofa, anche negli allevamenti certificati “Benessere animale”. Esistono diverse stabulazioni alternative, che consentono alla scrofa di muoversi e di interagire con i propri piccoli, ma occorrerebbero investimenti.
Lo stesso dicasi per la castrazione, un’operazione effettuata sui suinetti maschi per prevenire il cosiddetto “odore di verro”, un sapore sgradevole che può svilupparsi nella cottura della carne proveniente da maiali non castrati che abbiano raggiunto la pubertà. La legge, e di conseguenza anche la certificazione “Benessere animale”, la consentono senza l’utilizzo di anestesia e analgesia purchè sia effettuata entro i sette giorni di vita dell’animale. Se è vero che i nostri investigatori hanno documentato più volte castrazioni illegali, cioè compiute senza anestesia su maiali adulti, è vero che, anche qualora sia effettuata nel rispetto della legge, questa operazione causa agli animali dolore fisico e alterazioni comportamentali, al punto da essere contestata anche dalla Federazione dei veterinari europei (Fve). Le alternative per superare la castrazione chirurgica esistono, ma invece che sperimentare percorsi per ridurre la sofferenza degli animali negli allevamenti, vengono create etichette per ingannare i consumatori.
Da tempo ci stiamo impegnando per ridurre le sofferenze dei maiali documentate anche da Sabrina Giannini nella puntata di Indovina chi viene a cena. Con la campagna #SOSpig chiediamo alle catene di supermercati italiani di superare l’utilizzo delle gabbie per le scrofe e le mutilazioni dei suinetti all’interno della loro filiera produttiva. Scopri di più su www.sospig.it
Chi rilascia queste certificazioni? Chi controlla?
A rilasciare le certificazioni “Benessere animale” indagate nella puntata di Indovina chi viene a cena è il CSQA, un ente che ha svincolato ogni tentativo di intervista approfondita e si è limitato a rispondere di affidarsi prevalentemente all’autocontrollo delle aziende stesse.
Il Ministero della Salute, anche in ragione della poca chiarezza di queste etichettature volontarie, sta definendo un percorso per giungere a una certificazione insieme al Ministero delle Politiche Agricole. Ma perché intanto non vietare queste etichette che da due anni compaiono sugli scaffali dei supermercati?
Le attuali certificazioni disincentivano il reale miglioramento delle condizioni degli animali
Anche Legambiente e CIWF, parlando di etichette ingannevoli, chiedono a entrambi i Ministri con una petizione di avviare subito «un processo per la definizione di un’etichettatura univoca, volontaria, specie-specifica secondo il metodo di allevamento». Queste certificazioni stanno creando un danno sia ai consumatori, che non possono sapere qual è il sistema di allevamento, ma anche a quegli allevatori che hanno investito in alcuni reali cambiamenti di cui gli stessi consumatori però non sanno nulla. È infatti probabile che molte persone al supermercato sarebbero disposte a pagare di più se sapessero che gli animali sono allevati allo stato brado o con determinati accorgimenti, ma come capirlo se questa etichetta “Benessere animale” non viene regolamentata? Così, anziché aumentare la trasparenza, aumenta la confusione. Inoltre, perché gli allevatori dovrebbero accogliere questo cambiamento, che comporta costi, se questa certificazione non ha alla base una netta distinzione tra chi alleva ad esempio al pascolo e tra chi ancora pratica l’intensivo?
Domande ancora aperte. L’unica certezza è che le attuali certificazioni “Benessere animale” non sono pensate per garantire migliori condizioni agli animali, ma sono operazioni di marketing.