Non ho mai visto così tanta sofferenza!
Quella che segue è la testimonianza di Giulia, una delle ragazze del Team Investigativo di Essere Animali che in un allevamento della Lombardia ha filmato una situazione di estrema sofferenza raccolta nella nostra ultima indagine Prosciutto di Alta Crudeltà. La sua è stata un’esperienza fortissima, ha deciso di entrare in contatto con il dolore degli animali per poterlo rendere visibile a tutto il mondo.
«In questo allevamento eravamo già andati a effettuare riprese a ottobre e febbraio. Entrambe le volte avevamo acquisito materiale interessante dal punto di vista investigativo ed è così che a distanza di tempo abbiamo deciso di tornarci anche a giugno.
Iniziamo a prepararci: indossiamo tute, scarponcini, mascherine, ognuno conosce il proprio ruolo.
L’allevamento è suddiviso in diversi reparti, dai suinetti ai maiali adulti all’ingrasso. Pronti a entrare apriamo la porta da dove si accede al settore dei maiali più giovani.
Facciamo un primo passo e subito notiamo un maiale sdraiato nel corridoio con la coscia lacerata.
Gli siamo alle spalle, avanziamo e non crediamo ai nostri occhi: è vivo! Nell’immediato riprendiamo con la videocamera e scattiamo fotografie. Il piccolo è sdraiato sul fianco, ha costanti spasmi, gli occhi aperti, il respiro irregolare, ansima. È evidente la sua sofferenza. La coscia destra è carne viva, forse ridotta in quello stato a causa del cannibalismo, fenomeno diffuso negli allevamenti.
Ci chiediamo come sia possibile essere arrivati a questo e dentro di me emerge un sentimento di rabbia. Per quale motivo l’allevatore lo ha abbandonato agonizzante? Perché non ha posto fine alle sue angosce sollecitando l’intervento del veterinario?
Da quanto tempo si trova in queste condizioni?
Sul lato sinistro del corridoio ci sono delle porte, delle quali una è stata lasciata aperta.
A terra c’è il cadavere di un maiale, ha la pancia gonfia e sulla coscia il tatuaggio che identifica l’appartenenza al Consorzio del Prosciutto di Parma. A terra, una canna dell’acqua ancora attaccata al rubinetto fa intuire che chi avrebbe dovuto pulire e smaltire i corpi non lo ha fatto, lasiando il lavoro incompiuto. L’enorme stanzone è vuoto, tranne il box infermeria, dove vengono spostati gli animali malati. Sono presenti una decina di feriti: zampe gonfie, alcuni paralizzati, altri sdraiati sopra un maiale che però resta immobile. “Quello è morto”, affermo. Scavalco la recinzione e mi avvicino. Il maiale è privo di vita, all’altezza dell’occhio ha una bozza delle dimensioni di una palla da tennis. Forse un’infezione o una forma tumorale non curata.
Proseguiamo ed effettuiamo alcune riprese all’interno di altri stanzoni, questa volta illuminati con luce artificiale, al cui interno si trovano centinaia di maiali. Di reparti come questo ce ne sono diversi. La luce accesa permette di vedere bene la profondità di questo posto e il numero di individui stipati. Sono molto giovani, di circa 2-3 mesi di età e tutti estremamente curiosi. Quelli più vicini alle sbarre cercano il contatto, si allungano verso di noi e danno un colpetto con il muso.
Ora come non mai, sono consapevole di essere immersa nell’assurdo sistema dell’allevamento intensivo, dove la produzione deve essere sempre al massimo, dove il ritmo della vita è scandito in modo prepotente dall’intervento dell’essere umano, dove l’individualità viene costantemente annientata.
Psicologicamente siamo stravolti, decidiamo di tornare alla macchina e rincasare. Ripenso a quei momenti, non c’era spazio per le lacrime.
L’importante era documentare e denunciare ancora una volta l’assurdità degli allevamenti e la tremenda realtà che caratterizza questi luoghi. Le immagini hanno un potere comunicativo straordinario e aiutano a creare consapevolezza: far aprire gli occhi, smettere di essere indifferenti e fingere che tutto vada bene. C’è qualcosa di profondamente sbagliato e immorale, sta a noi fare in modo di cambiare direzione verso un società più libera, rispettosa e giusta.»